Intervento in occasione dell’annuale incontro natalizio con Sindaci, Amministratori e Politici (14 dicembre 2016)

14-12-2016

Illustri Autorità,

Illustri Sindaci e amministratori,

Signori e Signore,

 

1. A tutti il mio cordiale benvenuto e il sincero ringraziamento per aver accettato anche quest’anno l’invito ad incontrarci in prossimità delle feste del Santo Natale e dell’inizio di un nuovo anno civile. Scambiarci gli auguri è il gesto semplice e spontaneo che in questi giorni ripeteremo con tante persone. È un gesto bello perché rivela un cuore buono che desidera e augura con gioia il bene. Donarsi l’un l’altro gli auguri con un bacio o una forte stretta di mano trasmette, inoltre, un reciproco sentimento di fiducia e di solidarietà per affrontare con speranza il futuro che ci sta davanti. Di speranza e di solidarietà ha bisogno il nostro popolo friulano che nella recente prova di democrazia ha mostrato – come tutto il popolo italiano – di non cedere alla rassegnazione, ma di voler partecipare da protagonista, pur con opzioni diverse, alla costruzione del proprio futuro. Esso attende di essere ascoltato anche da noi che, con responsabilità diverse, possiamo influire sul bene comune della nostra gente.

So che avete nel cuore questa preoccupazione e che cercate nella misura del possibile di rispondere alle attese, a volte molto sofferte, della popolazione  pur a fronte di emergenze, di situazioni di grande complessità, di mezzi oggettivamente insufficienti, di mutamenti delle strutture e dei punti di riferimento che talvolta rendono più intricato il servizio richiestovi. Permettete, allora, che prima di proseguire la riflessione vi rinnovi il mio grazie per la dedizione onesta e tenace che spesso va oltre i calcoli di convenienza, di orologio e di carriera. In questi giorni di fede e di festa, trasformerò il mio ringraziamento in preghiera per voi e per i vostri cari. 

 

2. Avendo constatato che è cosa gradita, unisco all’augurio anche una riflessione che ognuno potrà valorizzare come meglio crederà opportuno. 

C’è una parola che è rilevante sia nel linguaggio della fede che in quello della politica e dell’amministrazione e che avverto di forte attualità: la parola è comunità. Su di essa vorrei soffermarmi con alcune sottolineature.

Mi spinge a ragionare con voi di comunità non solo il riferimento al pensiero e all’agire politico, ma, prima di tutto, il tragitto che la nostra Diocesi sta percorrendo, coinvolgendo parrocchie e foranie, sacerdoti e religiosi e fedeli laici. Abbiamo chiamato gli organismi diocesani di rappresentanza e le comunità parrocchiali a lavorare come in un cantiere aperto che mira a delineare nuove forme concrete di comunione tra le comunità stesse. Da questo cantiere di riflessioni e confronti sta nascendo il progetto delle Collaborazioni Pastorali di cui, probabilmente avete già sentito parlare, ma che mi sembrava giusto brevemente presentare ai sindaci, agli amministratori e ai politici del territorio. 

Su questo progetto stiamo compiendo un accurato discernimento con un coinvolgimento più ampio possibile per soppesare senza fretta in che modo le parrocchie di uno stesso territorio  possono instaurare una collaborazione stabile e organica che chiameremo, appunto, Collaborazione pastorale. Grazie a tale collaborazione le parrocchie mireranno ad un duplice obiettivo: crescere nella comunione tra loro  per essere più efficaci nella comune missione. 

 

3. Ci siamo avviati in questo cammino non per valutazioni sociologiche o di efficienza organizzativa, ma per seguire il programma che Gesù consegnò ai suoi apostoli nell’Ultima Cena mentre pregava Dio Padre: «Che siano una cosa sola perché il mondo creda». Queste parole del Signore sono anche il titolo del nostro progetto. Il distintivo di coloro che credono in Gesù è l’unità: essere una cosa sola. Gesù, però, non pensava ad un’unità di massificazione nella quale è cancellata l’identità del singolo, come propongono alcune religioni orientali. Egli invitò i suoi a vivere una unità di comunione, frutto di una libera collaborazione tra i membri della Chiesa fino ad essere «un cuor solo ed un’anima sola» e nella quale ognuno esprime il meglio delle sue capacità e caratteristiche a servizio degli altri.

Le Collaborazioni pastorali vogliono essere un modo per mettere in pratica la proposta di Gesù creando tra le parrocchie che le compongono un più intenso spirito di comunione grazie alla reciproca collaborazione. 

Siamo convinti che questo spirito di fraternità comunitaria attirerà tante persone che oggi cercano una casa per il loro cuore, spesso provato dalle fatiche della vita. Così la nostra Chiesa di Udine sarà più missionaria.

 

4. Siamo ben coscienti che l’attuazione del progetto comporterà non poche fatiche ma, seguendo il forte invito contenuto nell’esortazione apostolica «Evangelii gaudium» di Papa Francesco, siamo decisi a superare lo scoglio del «si è sempre fatto così» ed esplorare vie nuove. 

Anche se viviamo in un mondo in rapido cambiamento e spesso in crisi di fede e in una diocesi formata da paesi talvolta molto piccoli ed esposti a qualche avvilimento o trascuratezza, non vogliamo, per usare un’espressione cara al Santo Padre, lasciarci rubare la speranza. Ci teniamo stretta questa piccola e grande virtù, sicuri della vitalità sorprendente della Chiesa e confidando nell’azione instancabile dello Spirito di Dio che saprà convincere le nostre comunità ad aprirsi l’una all’altra nel mutuo scambio di doni e di risorse.

 

5. Una descrizione più dettagliata del progetto potrete leggerla nella testo-bozza che vi offriremo.  Ma già da quanto ho sinteticamente esposto credo risulti chiaro che abbiamo pensato un’impostazione pastorale nella quale le singole comunità, anche piccole, non vengono trascurate o, peggio, soppresse. Anzi, le Collaborazioni pastorali funzioneranno bene se le singole parrocchie che le compongono saranno vitali e offriranno il loro contributo; come membra di un unico corpo, tutte necessarie all’armonia e alla vitalità del corpo stesso. Questa è la Chiesa secondo la nota immagine di S. Paolo. In essa lo Spirito Santo può attuare il miracolo di far crescere contemporaneamente la comunione d’insieme e le singole comunità.

 

6. Pur nella distinzione di campi e  di obiettivi, dal nostro progetto diocesano possono emergere delle analogie concrete con l’organizzazione amministrativa e politica di un territorio e della sua popolazione. Sia la Chiesa, infatti, che un Comune, una Provincia, una Regione, una Nazione partono da un comune dato fondamentale: sono formate da persone umane. 

Sembra un’affermazione ovvia ma, forse, è opportuno fermarsi a dare uno sguardo onesto sulla struttura della persona umana perché oggi non c’è sempre accordo neppure su questo. E le conseguenze le riscontriamo negli orientamenti legislativi e amministrativi. 

Mi limito solo a brevissimi spunti, degni di ben altro approfondimento.

Ogni essere umano non è solamente individuo di una soggettività, di una identità irriducibili, ma per natura e per vocazione è fatto per la relazione e ha bisogno di vivere inserito in una fitta trama di relazioni. Dalle buone relazioni, più che dal benessere materiale, dipende la sua felicità. Per cui la comunione è il suo destino; potremmo dire il suo “paradiso”.

La Rivelazione cristiana getta luce sulla natura profonda della persona umana ricordando che ogni uomo viene da un atto di amore creatore di Dio che è in sé la Comunione perfetta del Padre col Figlio nell’unico Santo Spirito. Porta, perciò, nel suo dna l’immagine di Colui che lo ha creato; cioè, della Comunione perfetta della Santissima Trinità. 

I segni che l’uomo sia un essere-per-la-comunione sono evidenti lungo tutta la storia e in ogni società umana. Pur in mezzo a tante – a volte tragiche – fatiche per creare comunione egli conserva l’insopprimibile istinto della comunione; ha un ordinamento intrinseco alla socialità. 

 

7. Per realizzare questa vocazione intrinseca alla comunione (quindi all’amore) le persone umane si sono reciprocamente cercate: l’uomo ha cercato la donna, assieme hanno creato la famiglia, il clan, il paese e, via via, le società più complesse. La comunione strutturata in comunità è il primo contenuto concreto del cosiddetto bene comune. Di conseguenza, il primo obiettivo della buona politica e della buona attività amministrativa dovrebbe essere quello di  custodire la loro socialità, la loro capacità di rispondersi gli uni gli altri nel momento del bisogno, la loro capacità di vedere nella condivisione della vita e nelle alleanze che ne derivano il primo bene comune. Perciò le prima istituzione che ha cura di questo bene fondamentale si chiama Comune; altrimenti, se fosse soltanto una centrale di organizzazione e di erogazione di servizi, potrebbe chiamarsi agenzia.

 

8. Rivolgendo ora l’attenzione anche al nostro Friuli, che è un fitto tessuto di tante – e spesso piccole – comunità, ci chiediamo: come salvaguardare e promuovere una sana socialità? La vita comunitaria che faccia sentire a casa loro le persone che abitano questa bella terra? A 40 anni dal terremoto e dalla straordinaria solidarietà che ha contrassegnato la ricostruzione, come attraversare altri sconvolgimenti epocali senza smarrire l’identità delle comunità e rafforzare tra loro una rete virtuosa di collaborazione?

Sono interrogativi che sollevano questioni molto complesse che come tali vanno analizzate evitando pericolose semplificazioni o, peggio ancora, strumentalizzazioni ad altri fini che non siano l’amore per la buona vita sociale delle nostre comunità e di tutto il territorio.

Penso, comunque, di suggerire quattro verbi da considerare come delle frecce direzionali per chi si impegna a livello politico e amministrativo per custodire le nostre comunità e la socialità nelle nostre comunità. Sono i verbi avvicinarsi, proteggere, condividere, appartenere.

 

9. Il primo verbo: avvicinarsi.

La prossimità sta al cuore del Vangelo perché la buona notizia del cristianesimo è che Dio non si è tenuto lontano dall’uomo – come molte altre religioni e filosofie insegnano – ma si è fatto “prossimo” dell’uomo fino a prendere una carne come la nostra da una madre, Maria. Questo è  il mistero del S. Natale che ci avviamo a celebrare. Gesù è il primo buon samaritano che si ferma accanto all’uomo ferito a morte e si fa carico del suo destino, raccogliendolo tra le sue braccia. Col suo esempio egli ha tracciato la via maestra di ogni buona convivenza umana che è quella di farsi prossimo di ogni persona senza tergiversare su quale uomo vada amato, ma farsi vicino a chiunque, specialmente se giace nel fosso.

Questa cultura cristiana della prossimità è stata l’humus vitale che ha formato le comunità e le ha sostenute in tempi facili e difficili. Quando essa si impoverisce non si alimentano più né le reti del volontariato né quelle dell’associazionismo né quelle della disponibilità generosa per il bene comune. Diventa debole la comunità e scricchiolano anche le istituzioni.

La democrazia si alimenta di partecipazione di molte persone che non si limitano a vivere l’una accanto all’altra, ma l’una con l’altra e l’una per l’altra; l’una responsabile del destino dell’altra e di tutta la comunità.

 

10. Il secondo verbo: proteggere.

L’apertura e l’affidamento reciproco tra i membri di una comunità è tanto più intenso e fecondo quanto più essi percepiscono la garanzia che chi tra loro e tra i loro cari cadesse nella fragilità non sarà dimenticato. Un clima di incertezza rischia di generare lo scivolamento delle persone, dei giovani in particolare, in una certa chiusura e nella rassegnazione o nel rancore “anti-sistema”. 

La responsabilità di proteggere in primo luogo i più indifesi tra i suoi membri è, quindi, condizione di un buon vivere comunitario e di serena partecipazione attiva alla vita sociale. 

Le principali forme di debolezza da proteggere sul nostro territorio sono ben presenti a tutti noi. Ricordo solo la depressione demografica con le sue varie cause, compresa la piaga dell’aborto, la persistente incertezza lavorativa che penalizza specialmente i giovani, il transito continuo di rifugiati, la protezione dei malati con sistema socio-sanitario, lo spopolamento  montano. 

S. Paolo ci ricorda che un corpo è sano se sa proteggere, prima di tutto, le sue membra più deboli. 

 

11. Il terzo verbo: condividere.

La prima comunità cristiana, così come è presentata negli Atti degli Apostoli, aveva come legge fondamentale la condivisione che iniziava con la comunione di tutti col Corpo e Sangue del Signore nell’Eucaristia e si traduceva nella condivisione dei beni fraternamente messi a disposizione affinché non vi fossero indigenti.

La condivisione generosa e gratuita è il collante di una comunità robusta e le nostre comunità, animate dallo spirito evangelico, hanno saputo viverla quasi con spontaneità. 

Probabilmente la prima condivisione che ci viene in mente riguarda i beni materiali. Vorrei, però, attirare l’attenzione anche su quella del patrimonio morale e spirituale. Quante volte sento lamentare la crisi di valori? Essi si rafforzeranno se li condividiamo e non solo a parole ma con scelte e comportamenti concreti e comunitari.

 

12. Il quarto verbo: appartenere.

È irreversibile la dinamica della globalizzazione dei beni, della velocità delle informazioni, della mobilità delle persone. In questo contesto sta riemergendo il bisogno di appartenenza ad affetti affidabili e ad una comunità che sia familiare. Si può essere sereni cittadini del mondo se si sa di appartenere alla propria comunità nella quale ognuno ritrova volti familiari, relazioni radicate nel cuore, un senso della vita e valori condivisi. Altrimenti si rischia di sentirsi parte di nulla e di smarrire anche la propria identità. 

L’appartenenza alla propria comunità va riconosciuta anche nella strutturazione di uno Stato che dovrebbe essere comunità di comunità. Questa legge varrebbe anche per quella che chiamiamo “Comunità europea”. Quando non viene rispettata, prima o poi si riaccendono spinte disgregatrici che hanno radici profonde.

 

13. Gentili Autorità, Sindaci e Amministratori, concludo la mia riflessione che aveva lo scopo di condividere con voi gli obiettivi e l’ispirazione di fondo di un progetto diocesano che si intersecherà anche con l’organizzazione civile e amministrativa del territorio e da esso trarre qualche altro spunto utile a tutti. Spero che questa condivisione consolidi le forme di collaborazione già presenti , grazie anche ad una sintonia di prospettive di fondo.

Mi preme, come appendice finale, di ricordare la SPES, la Scuola di Politica ed Etica sociale promossa dalla Diocesi e giunta al terzo anno di vita, che vuol offrire un contributo di formazione seria per amministratori e politici partendo proprio dalle radici e dai fondamenti antropologici che ho ricordato anche stasera. Colgo l’occasione per invitare a sostenerla specialmente invitando persone giovani a partecipare.

 

Di cuore auguro ancora a voi e ai vostri cari Buon Natale e un avvio sereno del nuovo anno, assicurandovi la Benedizione del Signore. 

 

mons. Andrea Bruno Mazzocato