Cari fratelli e sorelle,
abbiamo ascoltato nella prima lettura la Voce che l’apostolo Giovanni udì direttamente dal cielo: “Beati i morti che muoiono nel Signore. Si – dice lo Spirito – essi riposeranno dalle loro fatiche, perché le loro opere li seguono”.
Per un cristiano e per un sacerdote non ci può essere grazia più grande di questa: “morire nel Signore”. Chi è stato vicino a mons. Menis negli ultimi momenti della sua vita terrena può testimoniare che il Signore Gesù ha riservato questa grazia al nostro caro e stimato sacerdote. E’ morto in preghiera, accompagnato dalla preghiera dei confratelli – da quelli anziani della Fraternità sacerdotale fino al più giovane del Presbiterio, don Alberto Santi, anche lui buiese – e del personale. Possiamo dire che mons. Menis è morto come un patriarca biblico perché ha consegnato serenamente a Dio i quasi 95 anni di esistenza e 71 di sacerdozio consumati a servizio della Chiesa e dei fratelli.
Ho creduto giusto ricordare come mons. Menis si sia congedato da questo mondo in totale comunione con il suo Signore perché è stata la degna conclusione di una vita vissuta sempre con questo stile spirituale.
Aveva ricevuto dalla Provvidenza notevoli talenti che egli ha messo a frutto nell’insegnamento in seminario; nella stesura di pubblicazioni di carattere storico e culturale che rimangono tutt’oggi di grande valore; nella realizzazione di progetti e iniziative lungimiranti quali la fondazione del Museo diocesano e Gallerie del Tiepolo, il meticoloso recupero di opere d’arte dalle macerie del terremoto, la direzione del Centro regionale di catalogazione e restauro; e tanto altro.
Questa sua opera di elevato profilo scientifico e culturale ha ricevuto anche vari e meritati riconoscimenti sia dal mondo ecclesiastico che da quello civile.
Non mi dilungo, però, nella descrizione dell’attività di mons. Menis perché dovranno esserci altre e doverose occasione per farlo nel modo adeguato e competente.
Desidero, piuttosto, mettere in luce quale sia stata, a mio parere, la motivazione profonda che lo ha ispirato e sostenuto. Non era mosso da ambizioni personali e neppure, principalmente, dalla curiosità e dall’interesse, pur nobile, di scoprire cose nuove sul campo archeologico, storico e artistico.
Nel profondo di mons. Menis c’era un animo sacerdotale. È stato un sacerdote autentico che ha amato e servito la sua Chiesa e questa Chiesa concreta che è cresciuta lungo i secoli partendo dalla ricca tradizione cristiana di Aquileia.
Ha amato e servito la sua Chiesa mettendo a disposizione di essa i talenti di intelligenza che egli aveva e la sua passione per la storia. Aveva capito che per una Chiesa locale è decisivo mantenere viva la memoria della fede vissuta nel passato, alimentandola con le testimonianze letterarie artistiche che possiamo ritrovare e conservare. Se perde le proprie memorie di fede, una Chiesa perde la propria identità perché la nostra fede cristiana si ravviva facendo memoria di testimoni che ci hanno preceduto nei secoli.
Creo che sia stato l’amore per la propria Chiesa friulana e per la sua ricca tradizione di fede che ha spinto mons. Menis anche a scavare tra le rovine del tragico terremoto per recuperare, magari gravemente mutilate, le opere d’arte delle nostre chiese. Mentre tanti altri si dedicavano alla grande ricostruzione delle chiese, lui e valenti collaboratori si adoperavano, con meticolosa dedizione, a ritrovare e restaurare le opere d’arte perché erano testimonianze della fede e della devozione del popolo friulano che non doveva andare perduta, pena perdere le radici della propria tradizione cristiana.
In questa sua opera instancabile possiamo riconoscere in mons. Menis l’amore per la sua Chiesa e la sua tradizione di fede; un vero animo sacerdotale che si è consacrato ad essa come servo fedele di Cristo. Questa profonda spiritualità lo ha sostenuto anche negli anni della vecchiaia fino agli ultimi momenti del suo pellegrinaggio terreno così da “morire nel Signore”. In questa Santa Messa di esequie preghiamo perché abbia la grazia di sentire dalle labbra di Gesù risorto il più grande riconoscimento: sentirsi chiamare “beato”, “beato” perché è stato per tutta la sua vita un servo fedele.