Cari Fratelli e Sorelle,
con i disagi e l’intima sofferenza che vengono dalle restrizioni imposte dal coronavirus, ma anche – spero − con fede tenace e sincera, abbiamo appena vissuto la Settimana Santa e la solennità della Santa Pasqua. Siamo entrati, così, nel tempo pasquale che si concluderà con la Pentecoste e che è, per caratteristica propria, invito a guardare avanti, verso il futuro − per quanto imprevedibile − con affidabile fiducia, cioè senza paura.
Piccoli segni incoraggianti ci danno un po’ di respiro: i numeri generali dell’epidemia in calo, la riapertura di diverse attività, la possibilità di muoverci un po’ di più, pur sempre con la dovuta disciplina. Soprattutto la persistente voglia di non mollare e, anzi, di scattare oltre appena sarà possibile. Auspichiamo – e quanto! − che siano riscontrate presto le condizioni anche per una maggior frequentazione delle nostre chiese e in particolare per la partecipazione dal vivo alle celebrazioni liturgiche. Non ci nascondiamo, tuttavia, che non si è di colpo dissolto quel senso acuto di preoccupazione che da un mese e mezzo ha come pervaso le nostre giornate. Mentre ci attanaglia la domanda su come concretamente organizzeremo la nostra vita collettiva nel tempo a venire.
Si sa che prima di lanciarsi in una prova impegnativa, gli atleti fanno spontaneamente un respiro profondo. Ebbene, per affrontare il prossimo futuro con convinzione e determinazione, abbiamo bisogno anche noi di un respiro profondo dell’anima. Questo respiro si chiama speranza. La speranza è l’ossigeno spirituale che purifica la mente, tonifica la volontà, sostiene la costanza necessaria per giungere alla meta e non ritirarsi per strada.
Hanno respirato questo ossigeno i due discepoli che la sera di Pasqua da Gerusalemme tornavano al loro paese di Emmaus e lungo la strada incontrarono Gesù risorto. Tutti, penso, abbiano presente il racconto di questa apparizione al capitolo 24 del vangelo Luca. Cleopa e il suo compagno tornavano tristi, quasi trascinando i passi, verso casa dopo che in Gerusalemme avevano perso la speranza allorché quel Gesù, in cui avevano creduto, era stato giustiziato nel peggiore dei modi e rinchiuso quindi in un sepolcro. C’era, è vero, il racconto di alcune donne, le quali avevano trovato scoperchiata e vuota la tomba di Gesù e sostenevano di aver sentito da degli angeli che Lui era vivo. Ma come credere? Così i due camminavano appaiati ma era come se ognuno fosse solo, perché nel vuoto di un’anima senza più speranza si insinua una tristezza profonda che la rende simile ad una tomba. Ci si chiude in se stessi e gli altri diventano estranei, pur se fisicamente vicini.
All’improvviso, Gesù risorto si accompagna a loro come un viandante casuale ma i due discepoli non lo riconoscono, perché hanno sugli occhi il velo della tristezza. Egli, però, trova due modi per rivelarsi a loro. Rievoca i recenti fatti accaduti in Gerusalemme e riguardanti la passione e risurrezione del Cristo, e li spiega con le profezie contenute nella Sacra Scrittura. E succede che, mentre racconta, la sua Parola ravviva un po’ alla volta il loro cuore freddo perché senza speranza. Giungono, intanto, ad Emmaus e i due discepoli vorrebbero non staccarsi da quel forestiero che aveva scaldato così mirabilmente il loro cuore e lo implorano: “Resta con noi perché si fa sera”. Gesù allora si siede a tavola e, preso il pane, ripete in mezzo a loro i gesti e le parole dell’eucaristia celebrata nell’ultima cena. E in quel momento, nel loro cuore si accende la fede e lo riconoscono.
Una ventata di speranza li invade perché hanno scoperto che Gesù è veramente risorto, È con loro e non perderanno più la sua compagnia. Qualunque prova dovranno affrontare, compresa la morte, saranno ogni giorno con lui. Tornano dunque a Gerusalemme per portarvi la grande notizia. Corrono stavolta assieme, in un cuor solo, perché la speranza ha riacceso tra loro la gioia della fraternità. Sono usciti dalla tomba della tristezza.
Cari Fratelli e Sorelle, in questo tempo pasquale procuriamo di riempire l’animo della stessa speranza dei due discepoli di Emmaus. Se ci apriamo con fiducia, Gesù continua a scaldare anche il nostro cuore con la sua Parola. L’incontro, poi, con lui nella sospirata celebrazione eucaristica, pur nelle condizioni date, ce lo fa sentire fin d’ora vicino, compagno di viaggio dal quale nessun ostacolo ci può staccare. Chiediamo per questo la grazia di poter tornare quanto prima ad attingere direttamente, corporalmente alla comunione con il suo Corpo e il suo Sangue.
Il cuore così rigenerato dalla speranza si rianima e con gioia si apre ai fratelli per affrontare insieme il futuro, non lasciando indietro nessuno. Di questa solidarietà abbiamo, e avremo sempre più, bisogno. Per ciò ripetiamo spesso l’umile e forte invocazione pasquale: «Resta con noi, Signore, perché si fa sera».
+ Andrea Bruno Mazzocato, arcivescovo