Nella nostra veglia di preghiera per invocare la pace, meditiamo il brano del Vangelo che ci è stato letto (Lc 19,29-44) che ci presenta Gesù che fa il suo ultimo ingresso a Gerusalemme compiendo la profezia di Zaccaria: «Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina». Nella città santa entra il re e il Signore che porta a compimento le promesse di salvezza fatte da tutti i profeti. Uno dei suoi titoli che gli aveva riconosciuto Isaia è: “Principe della pace” (9,6). È colui che stava portando in mezzo al suo popolo il dono messianico della pace come annuncia Paolo nella lettera agli Efesini: «Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani, e pace a coloro che erano vicini» (2,17).
I discepoli che lo accompagnano sembrano vedere in Gesù colui porta la vera riconciliazione, la pace stabile degli uomini con Dio e degli uomini tra loro. Per questo lo accolgono con canti di festa: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli».
Gesù, però non partecipa a questo clima di festa; anzi, mentre si avvicina a Gerusalemme, è preso da una profonda sofferenza che lo porta fino al pianto. Piange perché sa che la sua pace non si realizzerà facilmente dentro la città santa e in mezzo al suo popolo.
Sa che essi dovranno passare attraverso guerre, distruzioni e stragi e lo annuncia con parole forti: «Distruggeranno te e i tuoi figli dentro di te». E questo succederà perché deve esser sconfitto colui che è il nemico della pace; colui che per sua natura è divisore e omicida: satana, il nemico di Dio e degli uomini. Contro di lui la lotta sarà dura. Costerà a Gesù lacrime di sangue nel Getsemani e il dono di sé fino all’ultima goccia di sangue. E questa lotta per giungere alla vera pace Gesù l’avrebbe continuata con i suoi discepoli e con la sua Chiesa; ancora con lacrime e sangue.
Oggi le lacrime di Gesù sono quelle della Chiesa e sono le lacrime delle vittime innocenti che continuano ad essere sacrificate senza pietà come abbiamo visto in questi giorni. Sono le lacrime delle madri, indifferentemente israeliane o palestinesi, che piangono i loro figli uccisi.
Tornano attuali le parole con cui Matteo commenta la strage degli innocenti: «Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un lamento grande: Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più» (Mt 2,18).
In mezzo a queste tragedie che sembrano strappare ogni speranza di pace, noi cristiani siamo chiamati a riconoscere il vero nemico che si sta malvagiamente agitando tra gli uomini; un nemico che non viene nominato dai servizi televisivi e dai tanti dibattiti pubblici. È satana che, come dice l’Apocalisse, sconfitto da Michele e i suoi angeli, «colui che è chiamato diavolo e il Satana e che seduce tutta la terra abitata, fu precipitato sulla terra e con lui anche i suoi angeli» (Ap 12,9).
Per sconfiggere questo nemico dobbiamo certamente prodigarci per essere noi, prima di tutto, uomini e donne di pace, per promuovere una cultura di pace e per soccorrere chi è vittima di violenze e guerre.
Ma, insieme, è necessario pregare, perché con le nostre forze umane non vinceremo il nemico della pace. Supplicare significa allearci con Michele, con la Vergine Maria per chiedere a Gesù che la sua vittoria pasquale si diffonda presto nell’umanità intera, come egli ha promesso.
Questa nostra supplica rivolta a Gesù presente nell’eucaristia, si unisce questa sera a quella di tanti altri fratelli di fede. È la supplica con cui si conclude l’Apocalisse dove la Sposa-Chiesa invoca: «Maranathà. Vieni, Signore Gesù» (Ap 22,20). La facciamo nostra ora nell’adorazione eucaristica.