La Liturgia della Parola di questa Santa Messa della notte del Santo Natale si caratterizza per due temi, come due rivoli d’acqua che sgorgano dalla prima lettura, del profeta Isaia; poi s’immergono nella seconda lettura quasi come un fiume carsico, per poi riemergere.
Nella pagina del Vangelo di Luca, il primo tema è quello della luce e la Grazia divina che viene come luce dall’alto, come un dono, per diradare le tenebre che si addensano dentro e fuori di noi e che ci spingerebbero continuamente a vivere in modo drammatico: la fragilità, l’ambivalenza, l’ambiguità di ciascuno di noi e delle nostre comunità. San Paolo esprime tutto questo con due termini molto forti: empietà e desideri mondani. Di questo siamo fatti tutti noi. Ma la Grazia che viene dall’alto giunge per diradare queste tenebre: la Grazia divina che si manifesta come luce viene a dare nuova speranza proprio lì dove, umanamente, non si coglierebbero che confusione, degrado, violenza, prevaricazione. Viene laddove, davanti a tutto questo, ci sentiamo impotenti.
Questa luce viene da un bambino di nome Gesù, che significa “Dio salva”. Dagli occhi di questo bambino viene la luce del Dio nel quale crediamo. Da sempre, infatti, Dio che è il padre di questo bambino ha a cuore la vita di ogni uomo e di ogni donna; nel suo figlio Gesù Cristo ha voluto renderci suoi figli perché anche noi possiamo sperimentare la pienezza della vita, proprio la stessa vita divina del figlio suo Gesù Cristo.
Questo bambino non si impone, ma si propone, si offre come la misura dell’autenticità della nostra vita. È un bambino e come tutti i bambini chiede di essere accolto e rispettato, chiede che ci prendiamo cura di lui, che adattiamo i nostri ritmi di vita ai suoi. Così, facendolo con lui, impariamo a farlo anche tra di noi accogliendoci, rispettandoci, prendendoci cura gli uni gli altri, adattandoci all’altro, non manipolandolo né adattandolo ai nostri gusti o alle nostre pretese.
Il secondo tema è quello della gioia. Quando sperimentiamo la gioia? Ogniqualvolta ci siamo sentiti amati da qualcuno non per qualche nostra qualità o atteggiamento, qualche aspetto magari più simpatico del nostro carattere, ma per il fatto stesso che noi esistevamo, era Amore. Come quello che tutti quanti noi abbiamo sperimentato da piccoli nelle nostre famiglie. Ma abbiamo sperimentato gioia anche quando abbiamo capito che non siamo altro che strumenti nelle mani di Dio, strumenti unici, preziosi, attraverso i quali Dio vuole far vivere l’amore suo a qualcun altro. Strumenti unici, irripetibili. In quel momento solo noi potevamo essere strumento dell’amore di Dio per qualcun altro e ci siamo resi disponibili. Lo abbiamo fatto e abbiamo sperimentato una gioia grande.
Questa è la gioia che quel bambino ha vissuto non soltanto quando è nato, ma per tutta la sua vita: era la gioia per la quale Gesù esultava, dando lode al Padre perché queste cose, il suo Amore, le aveva rivelate ai “piccoli” e non ai sapienti di questo mondo. Gesù ha sperimentato sia la gioia di essere amato fin dall’eternità dal Padre, sia quella di essere stato strumento del Padre perché altri potessero vivere quello stesso Amore.
Questa è stata anche la gioia di Maria e di Giuseppe: anche loro si sono sentiti amati da Dio, ma anche loro si sono resi strumenti dell’amore di Dio.
Questa è stata anche la gioia dei pastori, personaggi anche discutibili, ma che quando hanno sperimentato loro stessi l’amore gratuito di Dio, si sono fatti messaggeri di questo stesso amore così come potevano.
Questa è la gioia di cui ciascuno di noi, oggi, è invitato a fare esperienza; è la gioia che invita ognuno a unirsi al coro degli angeli per cantare, come abbiamo fatto poco fa, «Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra gli uomini amati dal Signore». Cantare sì con le labbra, ma soprattutto con la nostra vita.