30-03-2014
Udine, 30 marzo 2014
Siamo giunti alla quarta tappa del nostro itinerario quaresimale che si è soffermato su alcune situazioni di vita in cui il cristiano fa esperienza della virtù della speranza. Oggi riflettiamo su una situazione nella quale al cristiano, sostenuto dalla forza della speranza, mette in gioco la stessa vita: mi riferisco al martirio.
“Martire” è una parola di origine greca che significa “testimone”. Dare buona testimonianza di Gesù è l’impegno principale di ogni suo discepolo, come abbiamo sentito nel testo evangelico appena letto: “Sarete chiamati a dare testimonianza”.
Il luogo in cui, normalmente, si convocano i testimoni è l’aula di un tribunale. E proprio di tribunale parla Gesù: “Vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe; e sarete condotti davanti ai governatori e ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani”.
Le parole di Gesù si sono puntualmente avverate nella vita e nella morte di tanti martiri, dai primi secoli fino al nostro tempo. Il martirio, infatti, ha accompagnato in ogni epoca la vita della Chiesa e il ‘900 è stato il secolo con il maggior numero di martiri. Alcuni sono noti, come p. Massimiliano Kolbe o Teresa Benedetta della Croce (al secolo, Edith Stein); ambedue condannati a morte nel campo di sterminio di Auschwitz. Ma a poca distanza da noi, oltre quella che era la cortina di ferro, tanti vescovi, sacerdoti e laici hanno subito processi e condanne fino alla morte dai regimi totalitari che temevano la fede cristiana.
Vien da chiedersi che logica avessero i processi e le condanne di quei tribunali contro innocenti che nulla facevano di male, anzi testimoniavano mitezza se non perdono verso i loro aguzzini. C’è una logica ed è quella annunciata e vissuta da Gesù in prima persona: “E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie” (Gv 3,19).
Gesù è venuto ad avviare il più grande processo della storia dell’umanità: quello della Luce di Dio contro le tenebre del male, della Vita contro la morte, dell’amore di Dio contro l’odio di satana. Inchiodando Gesù in croce le tenebre hanno tentato di spegnere la Luce e la morte ha cercato di soffocare la Vita; ma il mattino di Pasqua l’Amore onnipotente di Dio ha vinto e Gesù – la Luce del mondo – ha definitivamente trionfato sulle tenebre del male.
I martiri sono i discepoli di Gesù che, nel processo tra la Luce e le tenebre, si siedono sul banco dei testimoni e dichiarano che val la pena di fidarsi di Gesù e non delle tenebre perché in lui c’è la Luce e la Vita degli uomini. Al giudice presentano, come prova, la loro stessa vita. Sono disposti a consegnare la stessa vita fisica per testimoniare agli uomini che solo in Gesù val la pena di credere e di fidarsi. Ai loro giudici e aguzzini mostrano che non hanno potere su di loro perché possono privarli della vita fisica ma non la speranza in Gesù Cristo risorto. I martiri rinunciano alla vita ma non rinunciano a Gesù: per questo sono i più credibili testimoni della speranza.
Ma i martiri dove trovano tanta forza? I martiri cristiani non sono stati e non sono persone con delle straordinarie energie psicofisiche, come certi eroi che possiamo incontrare nella letteratura o nei film. Sono persone comuni e, a volte, deboli. La storia del martirio cristiano ci racconta di ragazze, di donne, di anziani.
La forza della speranza che li ha sostenuti non veniva da loro ma dallo Spirito Santo, secondo la promessa di Gesù: “E quando vi consegneranno nelle loro mani, non preoccupatevi di come o di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire: non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi”.
Alle parole di Gesù fa eco il nostro santo Patrono Ermacora di cui è stata letta una parte del racconto del suo martirio. Il governatore Savasto gli obietta che quello che dice non può esser farina del suo sacco ma deve essergli stato in qualche modo inculcato. Ermacora da ragione al governatore dicendo: ” E’ vero, quello che dico non viene da me: viene dallo Spirito Santo, che parla per bocca mia”.
I martiri testimoniano che Gesù è il Vivente, risorto dai morti, e li sostiene con la forza divina del suo Santi Spirito, fino a suggerire a loro le parole di fede da pronunciare davanti a chi li accusa e condanna.
Essi si sentono veramente tra le braccia di Gesù, avvolti da un amore che nessuna forza di male può più sconfiggere. E’ l’Amore di cui parla san Paolo al termine del capitolo 8 della lettera ai Romani, che : “Né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore” (8,39).
Concludo la mia riflessione, facendo un riferimento alla nostra situazione. In Italia e in Europa attualmente non si corre il rischio di subire il martirio, di perdere la vita a causa della fede. Ci sono, ugualmente, altre forme più quotidiane di martirio che testimoniano sempre la forza della speranza.
Ho conosciuto e seguito mariti o mogli che sono rimasti fedeli al matrimonio nonostante delusioni e prove pesanti. Dentro la quotidiana sofferenza che dovevano sopportare, ho toccato con mano la forza della speranza alimentata dalla fede in Gesù e dalla preghiera. Questa forza li sosteneva a fare sempre un passo in avanti nel dono di sé anche quando umanamente era forte la tentazione di mollare la presa.
Ricordo, ancora, la testimonianza di suore missionarie che per tutta la vita si sono consumate per i più poveri dell’umanità in mezzo a veri inferni di ingiustizie e sofferenze. Nomino, tra le altre, una nostra conterranea: suor Amelia Cimolino, di Carpacco di Dignano, che si è spesa fino alla fine per i lebbrosi dell’India.
Queste forme di amore eroico profumano di speranza; la speranza nella promessa di Gesù: “Chi perderà la vita per me la ritroverà”.
Questa speranza genera i martiri, i testimoni che convincono altri a credere in Gesù Cristo come al grande e unico Tesoro per il quale val la pena di perdere della vita.