Care sorelle e fratelli,
i testi della S. Messa di Pasqua che stiamo celebrando sono tutti pervasi da un sentimento di gioia. La parola che torna continuamente è: alleluia; un’esclamazione antica di entusiasmo e di vittoria.
Pasqua è la festa della vittoria di Gesù, il Figlio di Dio come ci hanno annunciato le parole della sequenza letta prima del Vangelo: ‘Sì, ne siamo certi: Cristo è veramente risorto. Tu, re vittorioso, portaci la tua salvezza’.
I vangeli descrivono la scena che si presentò agli occhi di Maria Maddalena, delle altre donne e di Pietro e Giovanni quando corsero al sepolcro dove, il venerdì sera, avevano deposto in fretta il corpo martoriato di Gesù a cui Giuseppe di Arimatea aveva dato una pietosa sepoltura perché non fosse gettato in una fossa comune.
La grossa pietra che chiudeva la bocca della grotta che faceva da sepolcro era rovesciata. All’interno, il sepolcro era vuoto e i teli che avvolgevano il corpo di Gesù erano rimasti lì sul posto, come abbandonati da colui che era risorto.
Tra questi teli, probabilmente c’era la Sindone, il telo funerario, che è custodito con tanta devozione a Torino e che proprio in questo tempo è esposta alla venerazione dei credenti.
Anche dalla nostra diocesi si stanno organizzando pellegrinaggi per andare a pregare davanti la Sindone. Personalmente vi andrò con più di trecento giovani.
Non ci spinge la curiosità di andar a toccare con mano un fatto enigmatico, misterioso. Ci recheremo, invece, a Torino in pellegrinaggio, mossi dal desiderio di fare un’esperienza spirituale e di rinnovare la nostra fede in Gesù e nella sua risurrezione dai morti.
La Sindone, infatti, è sempre stata conservata lungo i secoli come testimonianza sorprendente della risurrezione di Gesù. Porta impresse, in modo ancora misterioso per le nostre capacità scientifiche di indagine, le tracce delle ferite del corpo crocifisso.
Quelle ferite, una volta abbandonato il lenzuolo funerario che lo avvolgeva, Gesù risorto andò a mostrarle ai suoi discepoli per aiutarli a credere. Essi, infatti, faticavano a convincersi di avere ancora tra loro proprio Gesù con il suo corpo umano e temevano di essere sotto l’effetto di un’illusione collettiva.
All’apostolo Tommaso, che era in difficoltà di fede più degli altri, Gesù fa mettere fisicamente il dito sulla ferità della mano fatta dal chiodo e su quella del petto provocata dal corpo finale di lancia.
Mentre lo fa toccare con mano lo invita a credere e a comprendere. Tommaso capisce che Gesù è veramente risorto, che ha sconfitto il male e la morte ed ha inaugurato un nuova condizione di vita.
Capisce il senso di quelle ferite che sta toccando. Nel corpo di un uomo mortale esse non potevano che essere segno di morte perché nessun uomo poteva sopravvivere a simili torture fino al colpo di lancia finale al cuore. E per quelle ferite Gesù era morto sulla croce.
Ma ora, nel corpo di Gesù risorto esse sono diventate segno di vittoria: la vittoria dell’amore di Gesù sulla violenta cattiveria del male che voleva distruggerlo.
Egli aveva vissuto i suoi 33 anni di vita mortale come un unico e continuo atto di amore e di donazione a Dio, suo Padre, e a tutti gli uomini. Non si era mai tirato indietro un attimo dalla sua libera decisione di vivere solo per amore. Non si era tirato indietro neppure quando il suo amare senza nessuna difesa gli aveva attirato addosso tutta la cattiveria del male del mondo. Assorbì questo male anche sul suo corpo che rimase segnato da ferite mortali.
Tommaso tocca le ferite di Gesù risorto e comprende che ha vinto Lui sul male e sulla morte contro cui ogni uomo viene sconfitto. Ha vinto la potenza dell’amore che dal cuore di Dio è entrato nel cuore umano di Gesù ed entrato nel mondo per aprire la via della vita contro la negazione della vita che è il male, la cattiveria, il peccato e la morte.
Tommaso alla fine cade in ginocchio ed esclama: ‘Mio Signore e mio Dio’. Gesù, che gli sta davanti è ormai il suo vero Dio e Signore. Con quella confessione di fede affida a Gesù e solo a Gesù anche la sua esistenza pronto a vivere ormai come Gesù, donando tutto se stesso nella certa speranza che, amando fino alla morte, risorgerà con Gesù a vita piena ed eterna.
E’ questa la grande speranza cristiana che ha riempito di coraggio straordinario i santi e i grandi cristiani.
In questi giorni ricorre il quinto anniversario della morte dell’indimenticato Pontefice, Giovanni Paolo II. Uno dei grandi ricordi della mia vita resterà il suo funerale a cui ho avuto la grazia di partecipare.
In piazza S. Pietro, vicino alla sua bara, attorno a cui era raccolto tutto il mondo, non si respirava un senso di morte e tristezza. Si respirava una aria fresca di speranza.
Il grande Papa aveva terminato la sua esistenza terrena come si conclude una straordinaria missione di obbedienza a Dio e di dono di sé agli uomini per portare il Vangelo di Gesù.
Alla fine il suo corpo portava veramente le ferite di un dono di amore portato avanti, con ferma volontà, fino all’estremo; proprio come il corpo crocifisso di Gesù.
Si avvertiva che il suo non era un corpo sconfitto ma un corpo vittorioso e solo la speranza in Gesù risorto aveva dato tanto coraggio e larghezza di cuore a Giovanni Paolo II.
Egli aveva preso sul serio la promessa del Signore: ‘Chi perderà la sua vita per me e il Vangelo la conserverà con me per la vita eterna’.
Questa è la via della speranza che Gesù ha aperto il mattino di Pasqua: se camminiamo nel suo amore per tutta la vita, consumando anche il nostro corpo nel dono di sé, entreremo con lui nella risurrezione.
Sia questo anche il nostro programma di vita che oggi rinnoviamo celebrando la solenne liturgia di Pasqua.
Udine, 4 aprile 2010