Omelia della sesta Domenica di Pasqua (17 maggio 2020)

17-05-2020

Cari Fratelli e Sorelle, 

le letture della Parola di Dio di questa sesta domenica del tempo di Pasqua offrono tanti argomenti alla nostra meditazione; per questo ci farà bene tornare a leggerle personalmente. Nella mia omelia mi limito a commentare l’esortazione di San Pietro che abbiamo ascoltato nella seconda lettura: «Carissimi, adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché, nel momento stesso in cui si parla male di voi, rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo». Le propongo alla nostra attenzione perché sono parole che mantengono una forte attualità anche per noi cristiani del 21° secolo.

L’apostolo si rivolge alla comunità di battezzati che si era formata attorno a lui ascoltando la sua predicazione. Nelle prime righe della sua lettera egli saluta quei primi cristiani definendoli: «Fedeli che vivono come stranieri». In mezzo alla società pagana, nella quale costituivano una piccola minoranza, essi si sentivano come degli stranieri. Eppure esteriormente sembrano uguali a tutti; come gli altri vivevano in mezzo alla gente, si sposavano mettendo su casa, avevano il loro lavoro, frequentavano gli ambienti comuni. Ma c’era qualcosa che li distingueva al punto tale da farli sentire stranieri dentro la società del tempo. E, come succede per gli stranieri, venivano rifiutati fino anche alla persecuzione; anche se non trasgredivano nessuna legge ed erano, anzi, cittadini onesti.

Mercoledì sera, in un video-incontro con alcuni cristiani di una nostra parrocchia, una ragazza delle superiori mi ha chiesto come deve comportarsi quando viene derisa dai coetanei perché si presenta come cristiana che partecipa alla S. Messa e alla vita della parrocchia. Si sente guardata come una che ha qualcosa di strano; appunto, come straniera. Più volte cristiani giovani e adulti mi hanno confidato la stessa sofferenza di sentirsi considerati come dei diversi negli ambienti di vita e di lavoro.

Che cosa rendeva i primi cristiani e tuttora rende i cristiani come degli estranei rispetto alla mentalità che si respira tra le persone, nelle scuole, nei posti di lavoro e che è propagandata dai mezzi di comunicazione di massa? San Pietro indica con chiarezza dove sta la diversità del cristiano: «La speranza che è in voi». È una bellissima risposta: i cristiani si distinguono perché sono uomini e donne di speranza. Custodiscono nell’anima quella speranza di cui ho parlato nell’omelia di domenica scorsa. Essi vivono l’esistenza come un pellegrinaggio verso una straordinaria meta; verso il posto che porta il nostro nome e che Gesù risorto ha preparato vicino al suo e in mezzo a tutti i santi. Animati da questa speranza i cristiani investono i loro giorni in gesti e opere d’amore con grande serenità di cuore.

Questa è la speranza che colpisce sempre coloro che non hanno fede anche se non riescono a comprenderla. Essa, però, provoca reazione diverse. Spesso dà fastidio alla mentalità pagana del mondo per cui chi ce l’ha si sente rifiutato. Qualcuno, invece, resta incuriosito e vuol capire quale sia il segreto della serenità di quel cristiano che gli vive vicino. Quello è il momento in cui, come dice l’apostolo: «Dovete essere pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi». Con le persone che si avvicinano per scoprire il segreto che porta nel cuore, il cristiano può diventare un vero missionario che condivide con un fratello o con una sorella la speranza che gli riempie il cuore e che ha scoperto conoscendo Gesù e credendo nelle sue parole. Questi missionari possono essere i vescovi e i sacerdoti ma, specialmente, i laici. Essi, infatti diffondendo il profumo della speranza del Vangelo in famiglia, nel lavoro, nella scuola, in politica e in ogni ambito della vita sociale.

Per essere, però, pronto a «dare ragione della sua speranza» il cristiano deve ravvivarla sempre, ricorrendo alla fonte indicata da. San Pietro: «Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori». Il tempo non mi permette di approfondire cosa significhi “adorare Cristo nei nostri cuori».

Ricordo solo che il momento più grande per incontrare realmente Gesù e adorarlo con tutto il cuore è la celebrazione dell’Eucaristia. Nella prossima settimana è nuovamente offerta ad ogni cristiano l’opportunità di partecipare alla S. Messa, dopo un inedito digiuno eucaristico che non vogliamo che si ripeta più. Torniamo tutti a vivere l’incontro con la Parola e il Corpo e Sangue di Gesù nella S. Messa. Troveremo lì la sorgente della nostra speranza da far assaporare, poi, ai fratelli.